Gennaio 2024, era una mattina, mi ricordo che mi arrivò la chiamata dal numero dei carabinieri. Lo conoscevo a memoria ormai, era il brigadiere che parlava, lo riconobbi subito, mi chiese di presentarmi in mediatamente in caserma per una notifica, io gli risposi che non potevo e che ero lontano, cosa che era vera, alla fine arrivammo ad un compromesso mi disse: “Russo prima delle 15:00 che poi me ne devo andare”. Lo presi in parola e mi presentai alle 14:55 da lontano lo vidi che stava già salendo in macchina per andare via, ma come mi vide scese subito esclamando: “mannaggia a te”. Mi portò in ufficio e mi disse “è arrivato il momento”, sapevo e non sapevo che sarebbe arrivato visto che poco tempo prima ruppi il beneficio dell’obbligo di firma, ma mai mi sarei aspettato un mandato di carcerazione per 3 mesi di definitivo rimanenti su un reato commesso in minore età. Dopo tutta la solita trafila di prassi all’ultimo il brigadiere fu chiamato di corsa dal maresciallo e tornò con un foglio, mi guardò, sorrise, e mi disse: “ti è andata bene anche sta volta”. Non ci potevo credere avevo altri 30 giorni per poter chiedere una misura alternativa alla detenzione, purtroppo ero conscio che non avrei potuto chiedere gli arresti domiciliari né da mia madre né da mio padre, quindi sfruttai quei 30 giorni per prepararmi mentalmente a quello a cui stavo andando in contro. Febbraio 2024, mattina presto, sentii il citofono di mia madre squillare e passi pesanti sulle scale, la porta della mansarda si aprì, ero sotto le coperte e d’istinto guardai in basso, vidi delle Timberland, alzai lo sguardo, ed erano loro brigadiere e vice, saltai giù dal letto e gli disse “sono pronto”. Beh, che ero pronto in un certo senso era vero, la valigia l’avevo già fatta, ma non ero pronto a vedere i miei nonni che mi aspettavano sulle scale piangendo per salutarmi, in automatico scoppiai anche io in lacrime. Fortunatamente questa volta non rimasi troppo tempo in caserma, feci giusto le impronte e aspettai che il brigadiere capii se mi avesse dovuto portare al Beccaria o a San Vittore. Purtroppo mi toccò il Beccaria, mi sembrava di stare nel bel mezzo di una giungla, porte che sbattevano, gente che urlava, gente che si tagliava, fortunatamente mi misero in un cella con un italiano, poco dopo capii che eravamo gli unici due della sezione e che ero il più grande di tutto l’istituto. Ogni giorno era una guerra, le prepotenze li sono all’ordine del giorno, ci provarono anche con me, appena arrivai, ma mi ribellai facendo capire che non era cosa. Fortunatamente passai li poco più di un mese e mezzo fino alla notte della rivolta dove prese fuoco quasi tutto l’istituto riducendo la capacità ospitativa del 50% da circa 90 posti a 45 nemmeno. Il giorno dopo mi chiamarono partente per bollate, corsi a chiamare mia madre dicendole che finalmente l’incubo era finito. Devo ammettere che ero preoccupato inizialmente, era la prima volta per me in questo mondo e non sapevo dove sarei andato finire, le guardie che mi portarono però mi rasserenarono dicendomi: “stai andando a stare meglio”. “sembra di stare in albergo là, e fidati che non a caso abbiamo scelto voi, siete quelli più tranquilli”. Provai a fidarmi ma di fatto filò tutto liscio. Rimanemmo una settimana al clinico in attesa di altri arrivi e l’ultima sera prima di essere trasferiti in reparto ci fecero partecipare al concerto di Lazza, Nitro e Jack the smoker, una esperienza indimenticabile, non mi sembrava vero di essere passato dall’inferno al paradiso in un solo giorno, ero al settimo cielo. La mattina seguente ci portarono in reparto al quarto, computer, forni, frigoriferi non mi sembrava di stare in galera, ma piuttosto in un hotel come mi diceva la guardia. Visto il periodo non ho avuto la possibilità di iscrivermi a nessun corso da seguire, decisi anche di non lavorare visto che avrei dovuto firmare un vero e proprio contratto di lavoro a differenza del Beccaria e percependo la naspi non mi sarebbe convenuto. Mi dedicai solamente all’ozio, pulizie ed incontri con dottoresse e psicologhe fino al giorno della mia scarcerazione.
Marco Russo